Vogliamo cominciare dall’inizio? O, per essere più precisi, da The Beginning (1959)? Questo disegno, uno dei primi lavori registrati dell’artista Liliane Lijn, raffigura un vortice di nuvole e forme simili a montagne che si dipana da un nucleo fitto di segni. I moti ondosi impregnati di inchiostro, che evocano i paesaggi misteriosi di Leonardo, generano un senso di movimento rotante, assimilabile all’orbita di un pianeta. Per Lijn, questo disegno rappresenta una sorta di ur-testo, “una mappa cosmica del suo stesso inizio”1, e conferma l’attrazione per il movimento che ha poi definito il corso della sua carriera settantennale.
Nata nel 1939, Lijn è cresciuta a New York e da adolescente si è trasferita in Svizzera con i suoi genitori. A diciotto anni ha dichiarato che avrebbe fatto l’artista e si è spostata a Parigi. Ha scelto di non frequentare la scuola d’arte, ma di studiare alla Sorbona, decisione che ha attribuito alla sua natura ribelle. Presto Lijn si è resa conto che la città non corrispondeva alle sue aspettative, né alle sue speranze: trovava impossibile farsi prendere sul serio come artista e nell’ambiente non incontrava molte altre donne. Nonostante le sue innovazioni artistiche e la sua immersione nell’avanguardia parigina, si sentiva per lo più ignorata dai colleghi, che erano assai più interessati al lavoro del suo compagno, l’artista greco Takis. In quel periodo, le è addirittura capitato che il suo lavoro venisse copiato e poi esposto, senza diritti, dal poeta beat americano Harold Norse2.
Nonostante la mancanza di sostegno, Lijn ha continuato a produrre, spingendo la sua pratica in direzioni sempre più sperimentali. Nei primi anni Sessanta, ha cominciato a sviluppare le sue “poem machines”, una serie di lavori che consistevano in caratteri Letraset trasferiti su un cilindro metallico rotante motorizzato. All’inizio, Lijn si è concentrata sulle qualità formali delle lettere, stampando i testi in varie configurazioni staccate dal loro contenuto semantico (in lavori come Alphabet, 1962). Poi ha cominciato a ristampare poesie, comprese quelle di Nazli Nour in Get Rid of Government Time (1962) e, più tardi, i suoi stessi scritti in Man is Naked (1964–65). Il movimento del cilindro faceva vibrare le parole, sfocandole finché non diventavano inintelligibili. Le macchine poetiche di Lijn rendevano visibili alcuni dei principi teorici che circolavano all’epoca negli ambienti intellettuali parigini, in particolare la decostruzione operata dal post-strutturalismo del rapporto tra segno (o parola) e significato (il contenuto della parola) e il conseguente postulato per cui ogni testo possiede una molteplicità di significati.
Dalla metà alla fine degli anni Sessanta, le poem machines di Lijn si sono trasformate da cilindri a coni in lavori come Sky never stops: poemkon (1965) e Poemkon=D=4=Open=Apollinaire (1968) – probabilmente la forma che ha reso più celebre l’artista. Dopo averli ribattezzati, nel 1969, “koan”, come le massime criptiche del buddhismo zen, Lijn ha finito per abbandonare del tutto i caratteri tipografici. I koan erano sempre mobili, grazie alle loro piattaforme motorizzate, ma più semplici ed evocativi nella forma, tanto da acquisire una qualità quasi totemica. Per evitare che qualcuno fosse tentato di interpretarli come fallici, Lijn si è preoccupata di collocarli in un’altra tradizione simbolica, affermando: “Il cono è un simbolo femminile molto importante. Non è maschile, è femminile. Quando i koan ruotano, più li guardi, meno vedi il corpo”3. Imprimendo un movimento alle sculture, Lijn mirava a smaterializzare il corpo delle donne4 che aveva così pesantemente definito le sue prime esperienze da artista a Parigi. I lavori cinetici rappresentavano una forma di emancipazione dallo schiacciante determinismo patriarcale della società.
Con la loro esplorazione della luce, i koan e altri lavori di questo periodo, come Liquid Reflections (1968) e Linear Light Column (1969), una colonna girevole avvolta in fili di rame, manifestano il crescente interesse dell’artista per la scienza e la tecnologia. Questi lavori adottano materiali industriali come metallo, polimeri acrilici e lenti di plastica per esaminare le proprietà della luce e dell’acqua e le forze della fisica e dell’astronomia. Lo stesso koan agisce come un prisma, con il potere trasfigurante di rendere più tangibili i fenomeni invisibili. Il movimento perpetuo produce una cangiante superficie riflettente invece di una forma fissa, e questo movimento trafigge lo spettatore, producendo un istante di profonda consapevolezza che permette di calmare la mente e vedere il mondo con occhi nuovi. Questo è in linea con il concetto Zen di mushin, o “mente piena di vuoto,” uno stato consapevole di flusso in cui si resta aperti e imparziali e dunque capaci di una visione più diretta. Nelle interviste, Lijn ha parlato del suo desiderio di radicare lo spettatore nel momento presente, consentendogli di vivere lo stesso assorbimento nell’ambiente sperimentato dai bambini5.
Gli interessi di Lijn in quel periodo erano allineati con quelli di molti suoi colleghi, dalla qualità formale e i materiali industriali di scultori minimalisti come Dan Flavin e Robert Morris alle realizzazioni di artisti californiani come John McLaughlin, che come lei usava semplici forme geometriche come oggetto di contemplazione zen. Il suo lavoro è anche paragonabile a quello del britannico Anthony McCall, che sondava le proprietà formali della luce attraverso la scultura. Negli anni Settanta, però, Lijn ha affrontato un nuovo corpus di lavori con un approccio completamente diverso. Ha iniziato a realizzare installazioni e sculture figurative multimediali che, pur coinvolgendo sempre la tecnologia, adottavano un’estetica più organica e composita. Lavori come Woman of War (1986) e The Bride (1988), descritti da Lijn come sculture performative, sono ispirati agli archetipi delle dee dell’antica mitologia, offrendo un contrappunto alla storiografia patriarcale. Di questi lavori ha detto: “Reinventando l’archetipo della dea, volevo reinvestire il femminile di un potere spirituale”6. Questa nuova visione della potenzialità femminile è evidente in lavori come Transformation of the Bride into the Medusa (1987), un lavoro su carta che rappresenta una figura virginale — che di solito, per definizione, conta su una controparte maschile — trasmutata in un’entità dalla forza autonoma. Qui le semplici, evanescenti forme pastello del primo pannello si evolvono gradualmente con il progredire del trittico, culminando in una complessa, contorta concatenazione di fili serpeggianti.
La rivendicazione di una mitologia femminista trova un’affinità con il lavoro della teorica post-strutturalista franco-algerina Hélène Cixous. Nel suo saggio, “Le Rire de la Meduse” (La risata della medusa), Cixous attinge al mito per mettere in evidenza la svalutazione delle donne da parte del patriarcato, che le riduce a qualcosa di inferiore e al tempo stesso minaccioso. Nella sua interpretazione, la figura della Medusa si trasforma da mostro in simbolo di potere femminile e sessualità complessa. Incoraggiando le donne a dedicarsi a quella che lei definisce écriture féminine, Cixous presenta l’autorialità come mezzo per accedere all’autorità e, in ultima analisi, ai piaceri del corpo alle proprie condizioni. Incoraggia le donne a creare come modo di trasformare lo status quo repressivo, ad abbracciare una sessualità multipla e fluida, che rifiuta il binarismo e celebra l’eterogeneità e la “infinita ricchezza” delle donne7.
Molti di questi fili riemergono in The Bride, esposta nella retrospettiva di Lijn allo spazio Ordet di Milano. Questa scultura drammatica è stata ispirata dal mito sumero della discesa agli Inferi della dea Inanna e da una visita dell’artista a una sottostazione elettrica8. Racchiusa in una gabbia reticolata, come a evocare un bisogno di protezione (che sia la sposa ad avere bisogno di essere protetta da noi o viceversa non è chiaro), la figura è fiocamente illuminata e ulteriormente nascosta da un velo d’acciaio. Anche se non la si può vedere nella sua interezza, ha una presenza imponente, che riverbera energia. Sprazzi di piume e vetro, strati cristallini di forme ovoidali di mica e cartapesta laccata incollate con la resina epossidica connotano un’aliena catturata nel suo habitat. Per la sua struttura complessa, questo lavoro ricorda un’altra celebre sposa in gabbia, quella dell’installazione di Marcel Duchamp, La mariée mise à nu par ses célibataires, même. Se la sposa di Duchamp è definita dalla presenza dei (e dalla perenne separazione da) i suoi spasimanti, la versione di Lijn è solitaria, e sembra attendere qualcosa. Se l’installazione di Lijn è eccentrica e complessa quanto quella di Duchamp, l’iterazione attribuisce alla sposa un peso maggiore. La sposa di Lijn, crepitante di energia elettrica, sembra quasi sospesa, come se il suo terrificante potere fosse solo temporaneamente inattivo.
Nella sua mostra del 2012, “Cosmic Dramas”, al Middlesbrough Institute of Modern Art (mima), Woman of War e The Bride sono stati installati insieme a una inquietante colonna sonora, scritta e interpretata da Lijn. L’artista ha raccontato come questa musica le si sia presentata di colpo, come affiorando dalla terra. Il desiderio di cantare di Lijn, e la sua apertura a questa voce intuitiva, riecheggia l’insistenza di Cixous sulla necessità di affidarsi agli impulsi inconsci nel processo creativo, quando descrive “il mio corpo trapassato da flussi di canzoni”9. Intonando “Sono la Medusa, guardami, trasformata in pietra. Sono l’immagine di lei,” Lijn evoca un’ancestrale, cruda furia femminile. Queste monumentali figure meccanizzate, che assomigliano a una specie di tecnologica Venere di Samotracia, pulsano di luce e attirano senza preamboli l’attenzione dello spettatore.
A prima vista, questi lavori creano un radicale distacco dai lavori dell’artista degli anni Sessanta. La forma minimalista dei koan evoca una indagine scientifica, mentre i lavori multimediali
privilegiano la poesia e il mito, come se appartenessero a una tradizione di indagine diametralmente opposta. Se i koan, più facili da confrontare con lavori di artisti maschi, possono sulle prime apparire “mascolini”, sarebbe il caso di mettere in discussione l’assunto per cui scienza = maschio e corpo = femmina. La stessa Lijn ha osservato che da giovane, quando ha cominciato a fare arte, credeva che “essere donna in un certo senso ti radicasse nel corpo in modo così totale che potevi fare solo due cose: potevi dire, ‘Okay, sono un
corpo e ne vado fiera,’ oppure ‘Io sono mente, al diavolo il corpo’”10. Con questa nuova serie di lavori degli anni Settanta, tuttavia, Lijn è giunta a rigettare questo dualismo cartesiano che ha definito tanta parte del pensiero occidentale. Piuttosto, questo decennio ha visto Lijn lanciarsi all’attacco con l’incoraggiamento di Cixous: “Scrivi il sé e torna al corpo che ti è stato sottratto”11.
Dagli anni Settanta in poi, la pratica di Lijn ha prodotto sia koan sia lavori multimediali. Nei primi, l’artista mette in luce la natura discorsiva della scienza, enfatizzandone le qualità poetiche e rifiutandone indirettamente la pretesa di oggettività. Invece di accettare le norme stabilite, Lijn insiste nell’osservare i fenomeni stessi, alle proprie condizioni. I suoi lavori cinetici e la varietà formale della sua pratica attestano un impegno verso la fluidità che sembra tradurre nei fatti l’esortazione di Cixous: “La donna deve inserirsi nel testo — così come nel mondo e nella storia — in virtù del suo stesso movimento”12. Come artista, Lijn sfida qualsiasi categorizzazione. Non ha mai partecipato a nessun movimento, non ha mai sentito la pressione a esporre, né a perseguire una carriera ambiziosa — d’altra parte, non ha nemmeno frequentato una scuola d’arte. Con il suo rifiuto dei modelli predefiniti, sembra che la vena ribelle di Lijn sia sopravvissuta agli anni dell’adolescenza. Ci auguriamo che possa conservarsi a lungo.